A cura di Silvia (12/2016)
Voto:
Il 1°
settembre 1939 la Germania aveva invaso la Polonia da ovest.
Il 17
settembre 1939 la Russia aveva invaso la Polonia da est.
Mi
ricordavo quelle date.
Due
nazioni in guerra avevano avvinghiato la Polonia come bambine che
litigano per una bambola. Una la prendeva per una gamba, l'altra per un
braccio. Tiravano così forte che un giorno la testa era saltata via.
Pensare alla Seconda Guerra Mondiale porta solitamente alla mente un
unico orrore, quello dell'olocausto, ma la lista di persone sgradite
non comprendeva solo ebrei, e spesso ce ne dimentichiamo. Tanto per
fare un esempio, il progetto eugenetico di Hitler prevedeva lo
sterminio di tutti i disabili (ciechi, ritardati, storpi, portatori di
qualsiasi handicap, anche lieve) indipendentemente dall'etnia di
appartenenza, in quanto l'essere imperfetto rappresentava un abominio.
Anche Stalin fu un vero e proprio maestro del terrore. Nonostante nei
gulag non ci fossero camere a gas e non venissero pianificati omicidi
di massa, era il lavoro estenuante e le temperature che toccavano i -50
gradi a mietere vittime. In Avevano
Spento Anche la Luna (qui la recensione) Ruta Sepetys ci
racconta proprio questa pagina di storia dimenticata, il massacro
silenzioso di ventiduemila polacchi, una strage non solo passata
inosservata, ma addirittura insabbiata e mascherata che ancora oggi
grida giustizia.
In Ci Proteggerà la Neve il
periodo storico è un po' sempre lo stesso, ci spostiamo solo
geograficamente, questa volta siamo in Germania, ed è un altro crimine
- taciuto anch'esso - che l'autrice denuncia: l'affondamento del
transatlantico Wilhem Gustloff su cui persero la vita diecimila
persone. Per capire la proporzione della tragedia, basti pensare che il
Titanic fece "solo" millecinquecento vittime.
Ma Ruta Sepetys, nata in America, di origini lituane, è nota per
disseppellire segreti e scomode verità, e per raccontare una guerra
priva di ideali e debordante di fanatismo, portatrice infetta di morte
e orrore.
La sua penna ci parla di gente comune che tenta di salvare
disperatamente i propri figli, di uomini e donne che confidano in un
futuro migliore, ma che in realtà vorrebbero solo tornare al passato,
in quegli anni in cui se vivere o morire non lo decideva un altro
essere umano, ma il destino.
Per questo l'autrice ha voluto scrivere un romanzo a quattro voci, in
poco più di trecentocinquanta pagine ha cercato di cancellare quella
linea tragicamente netta che ci portava a mettere i "buoni" da una
parte e i "cattivi" dall'altra e ha raccontato la storia di quattro anime
braccate dal senso di colpa, dal destino, dalla vergogna e dalla paura.
Joana, Florian, Emilia e Alfred. La lituana, il prussiano, la polacca e
il tedesco.
Non vi dirò come i loro cammini si intrecceranno, e nemmeno in quali
modi la vita ha affondato in loro il coltello, ma vi dico solo che la mezza stellina in più è tutta
di Emilia, della sua cuffia rosa, del suo cuore innamorato, del suo
coraggio senza confini.
Al di là dell'affresco storico, Ruta Sepetys è diventata bravissima nel
tratteggiare la complessità dell'animo umano, e i suoi personaggi, torturati dai segreti, tenuti in
piedi dalla fede, schiacciati dal peso delle menzogne, non
vorresti abbandonarli mai. Io almeno ero lì, con loro. Al fianco di
Joana mentre cercava di salvare più malati possibili, persa nelle sagge
parole del calzolaio poeta, intenta a scoprire i peccati di Florian,
stretta al braccio di Ingrid che pur senza vedere sapeva scrutare il
cuore degli uomini meglio di chiunque altro. Ma è Emilia il personaggio
più riuscito, lei che non ha niente, che dovrebbe odiare tutto e tutti,
e che invece conosce la fiducia, l'altruismo, il sacrificio. Lei che ha solo quindici anni e
l'ardire di mille guerrieri.
Come al solito - perché coi romanzi della Sepetys mi capita sempre -
avrei voluto più pagine, e non perché oggettivamente se ne senta la
mancanza, ma perché io, come lettrice, fatico a mettere la parola fine
a storie di questo tipo. In un ciclo infinito in cui il male sembra
poter generare solo altro male vorrei una rivincita, un riscatto,
seppur infinitesimale, per tutte quelle persone che hanno pagato il
prezzo di una guerra che non volevano nemmeno combattere, per le donne
razziate nel corpo e nell'anima, per i bambini non voluti, abbandonati,
uccisi, dispersi.
Ne esco distrutta, ma amo
disperatamente libri come questo.
Viviamo in un'epoca in cui si parla di tutto e di niente, in cui
l'editoria, il cinema e la televisione ci riempono gli occhi e le
orecchie delle solite storie di Guerra, capaci di puntare il dito
sempre nella medesima direzione, poi scopri realtà ancora oggi avvolte
dalle tenebre e ti chiedi perché.
Non ci sono risposte, o forse ce ne sarebbero di troppo scomode, e
allora ringrazi che esistano autrici come la Sepetys, brave, dannatamente brave
con le parole, capaci di portarti tra le pagine di un libro e di farti
sentire il freddo, la paura, la solitudine. E io, anche se il libro
l'ho terminato da giorni, anche se ogni personaggio ha avuto il suo
epilogo, sono ancora là. Tra i gelidi flutti del mar Baltico, tra i
relitti di un transatlantico dimenticato, tra i pianti di cinquemila
bambini inghiottiti dal mare. Non riesco a lasciare la presa di
nessuno, resto aggrappata allo zaino pieno di segreti di Florian, cerco
tra la folla il bambino smarrito e il calzolaio, non perdo di vista
Joana, ma c'è una mano che voglio stringere più forte di tutte le
altre, ed è quella di Emilia. Della
ragazza che ha vinto la vergogna e sconfitto la guerra.