A settantasei anni Pupi Avati - regista, sceneggiatore e produttore cinematografico - debutta come autore e con il suo romanzo d'esordio, Il Ragazzo in Soffitta, rivisita la figura dell'orco regalandoci un noir suggestivo tra le cui pagine si cela gran parte della sua arte.
Attraverso due storie raccontate parallelamente, ma
temporalmente
sfasate, siamo spettatori dell'amicizia che nasce tra Dedo e Giulio, in
una Bologna contemporanea, ma allo stesso tempo nostalgica vista
dall'alto dei suoi
incantevoli tetti e
osserviamo la vita di Samuele, un ragazzino cresciuto spiando la morte
e con una madre solita a dargli lezioni di autostima mentre lo tiene
stretto sotto le coperte.
Samuele non è un bambino speciale, non ha particolari talenti ed è
fisicamente sproporzionato con quelle sue gambe troppo corte che sono
spesso oggetto di scherno. Ma lui sa incassare i colpi come solo chi
non ha avuto niente dalla vita è in grado di fare e col tempo si
convincerà che la sua diversità altro non è che un punto di forza. Si
renderà anche conto
che l'infelicità e la paura saranno il solo cibo in grado di sfamarlo e
poco importa se gli altri gli corrono davanti e afferrano la vita
mentre lui non ha ancora allungato la mano, perché dalla sua parte ci
sono ragione e consapevolezza. Convinto di avere tutte le risposte in
tasca, ossessionato dal desiderio della madre che vuole
vederlo diventare un celebre violoncellista e folle d'amore
per Ornella, la
moglie del suo insegnante di musica da quando aveva undici anni,
Samuele impara a vivere
di infelicità e rifiuti, nell'attesa di quel
riscatto che - ne è certo - un giorno arriverà...
E così, mentre la quotidianità di Dedo e Giulio viene ripresa da lenti fotogrammi che immortalano come la paura e l'orrore possano entrarti in casa dalla porta principale, senza nemmeno dover chiedere permesso, quella di Samuele ci scorre davanti come una pellicola i cui colori si fanno via via sempre più accessi, immagini nitide e sgargianti che immortalano l'alienazione, lo squilibrio, l'orgoglio e l'ignoranza...
Fra le cose che ho
vissuto nella
mia vita o che vivrò so di sicuro che questa resterà per sempre quella
più bestiale, il momento in cui ho davvero visto come la vita ammazzi
un ragazzo, come lo abbranchi e cominci a stringere facendogli uscire
tutto il bello che aveva, riempendolo di un male che ogni giorno
diventa più grande, nelle ossa, nelle budella, nelle vene, nel cuore
senza lasciare una parte che non si infetti. E così nei baci che darà
ci sarà dentro quel male, e anche nelle pose che farà per la fotografia
della scuola, o nel modo che giocherà alla Play ci sarà quel male e
persino dentro il cheesburger e nella firma della sua prima carta
d'identità. Per sempre ci sarà nella sua vita quel male a renderlo
infelice.
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Quella che ci racconta Pupi Avati non è altro che una macabra favola
dell'orrore.
Prima ci
presenta Giulio, un ragazzino solo, introverso, timido, ma pieno di
fiducia, e poi all'improvviso manda in pezzi tutti i sogni e le
speranze che negli anni questo sedicenne un po' in sovrappeso e con al
collo strambe cravatte, si era pazientemente costruito. E lo fa nel
modo peggiore possibile. Mettendogli in casa un mostro, perché le storie
degli altri, quelle storie che sembrano non poterci appartenere,
possono diventare anche le nostre storie.
Improvvisamente il
passato incontra il presente, complici e carnefici diventano un
tutt'uno, e a sfidarli ci saranno solo due adolescenti e tutta la loro
inesperienza.
E' incredibile come l'autore riesca a
deformare poco alla volta alcuni personaggi che arrivano ad
assumere fattezze addirittura grottesche.
Il Ragazzo in
Soffitta è un romanzo senza dubbio d'effetto, strutturato
in modo efficace, ma soprattutto
scritto bene e in maniera poco convenzionale; Avati si prende
addirittura qualche libertà Ottocentesca, predilige lunghi pensieri a
frasi brevi e sintassi elementari e i capitoli sono un tripudio di
azzardi ben riusciti.
In meno di duecentocinquanta pagine ci parla di pazzia, solitudine,
emarginazione, infanzia negata, handicap fisici e psicologici; sono
tanti, magari anche troppi, i tasti che tocca, eppure alla fine, quando
preme quell'ultimo bottone che nessuno aveva osato anche solo sfiorare,
il boato che ne deriva è di quelli che ti toglie l'udito, ma ti ridà la
parola e la vista.
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