Sono morta. Sono morta, risorta e poi di nuovo morta.
Non so quante volte questo libro mi abbia uccisa, ma non sono state
poche.
Come spesso mi capita l'ho iniziato senza sapere nulla della trama,
affidandomi ciecamente all'autore che a combattere in Iraq c'è stato
davvero, e non per fare l'eroe, ma per pagarsi il college. Sei anni della sua vita in cambio
di cinquantamila dollari. Mai scelta fu più sbagliata, mai
scelta ha avuto un prezzo tanto alto da pagare. E così Kevin Powers ha
voluto scrivere un libro che è la cronaca di un dolore, di un
ripianto,
di un qualcosa che non potrà mai più riavere indietro.
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Su queste pagine ci sarebbe tanto da dire, ma mi chiedo quanto una recensione lunga ed esaustiva serva davvero. Yellow Birds andrebbe semplicemente inserito nella lista dei cento titoli da leggere una volta nella vita, per tanti motivi. Non è solo un romanzo, ma una testimonianza. Powers è un poeta, unisce alla durezza del racconto una prosa lirica che ti porta quasi a crogiolarti nella bellezza delle parole, per farti poi sprofondare in un abisso di sangue e morte.
A colpire non è la trama, la storia del ragazzo che torna
dalla guerra
è la storia di centinaia e centinaia di giovani, ma sapete che ci sono
stati più morti suicidi che caduti in battaglia? La guerra è
un cancro
che non ti si leva di dosso. Non c'è cura, non c'è salvezza, non c'è
pietà.
Kevin Powers affida a Bartle la sua voce. A un soldato che torna a casa
senza sentirsi un eroe, nonostante le medaglie lo vogliano illudere del
contrario. A un soldato che non ha pace, ma solo rimorsi. A un soldato
che non riesce più a sorridere e a guardare il mondo con speranza.
Bartle è andato in Iraq, per mesi ha pensato solo a non farsi
uccidere e adesso deve capire come sopravvivere. Indovinate qual è la
parte più difficile?
Meno di duecento pagine che sono un po' come la guerra. Una
volta finite non potremo più essere le persone di prima, perché,
ricordiamocelo, Yellow
Birds è una storia tragicamente vera.