A cura di Silvia (06/2013)
Forse Irène
Némirovsky è nata nel posto sbagliato e nell'epoca sbagliata.
Anche nella famiglia sbagliata direi. Non importa che lei scriva un
romanzo o un racconto, non importa che siano 3 righe o 300 pagine,
dalle sue parole emergono sempre gli stessi elementi: un totale
disprezzo per la classe sociale borghese, una fredda indifferenza verso
gli ebrei, e personaggi che spesso non sono vincitori, ma soprattutto
vinti.
Fin qui niente di strano se non fosse che l'autrice è ricca di nascita
e pertanto cresciuta negli agi e nel benessere con tanto di governante
al seguito, una fortuna solo apparente che l'ha privata
dell'affetto della madre totalmente disinteressata alla sua educazione;
Irène inoltre è ebrea, forse una delle donne meno orgogliose di esserlo
infatti negli anni '30 si convertirà al cattolicesimo, ma per ironia
della sorte verrà deportata e uccisa ad Auschwitz.
Ne Il Ballo l'autrice urla tutta la sua profonda avversione per la figura della "madre", e punta il dito contro il vil denaro, l'unica vera rovina della mente e dello spirito.
Rosine Kampf è una donna fredda e calcolatrice che ha passato
anni a piangersi addosso in quanto moglie di un povero usciere di banca
e madre di una figlia che sembra rappresentare più un peso che una
gioia. Poi la svolta e, inaspettata, la ricchezza. Rosine e il marito
per celebrare il loro nuovo stato sociale e sbatterlo in faccia a tutto
il
bel mondo parigino decidono di organizzare un ballo: duecento invitati che dovranno
schiattare d'invidia. Antoinette, la figlia
quattordicenne, ne verrà ovviamente esclusa. Addirittura dovrà dormire
nel ripostiglio, perché la sua stanza sarà adibita a bar.
Antoinette piange da sola di notte, quando solo la governante può
sentirla e di giorno, sotto lo sguardo freddo e calcolatore della
madre, medita vendetta. Pensa addirittura di rovinarle la festa
suicidandosi proprio quel giorno, così la gente avrà comunque qualcosa
di cui parlare, qualcosa che non riguardi quello stupido ballo.
Rosine ovviamente non si accorge del dolore della figlia, e nemmeno
Alfred, il marito: sono troppo concentrati a dare sfoggio di denaro e
potere.
E così Antoinette li guarda, li odia, spera che muoiano tutti, ed è così arrabbiata, così incattivita dalla sua breve e ingiusta esistenza che nemmeno il lettore riesce del tutto a giustificarla. Perché come spesso accade nelle storie della Némirovsky non esiste l'eroe o l'eroina di turno, ma solo personaggi falliti, vittime dei loro sogni e dei loro difetti che si sono fusi in modo grottesco dando origine a delle vere e proprie caricature.
Alla fine del racconto Rosine, che sperava di poter finalmente vivere "bene" grazie ai soldi accumulati, assaporerà l'amaro gusto del fallimento, mentre Antoinette, esclusa dal ballo perché ancora piccola, diventerà finalmente grande e con glaciale freddezza raccoglierà le lacrime della madre.
Se la storia fosse continuata non so se avremmo visto un'Antoinette maturata e cambiata, ma sono più propensa a credere che negli anni si sarebbe trasformata in una sorta di fotocopia di quel genitore che ha tanto biasimato. Forse non così spietata verso i figli, ma comunque schiava di quella società che coi suoi continui scintillii non lascia scampo.
Un racconto fortemente autobiografico, cinico e crudele, scritto in modo diretto ed essenziale, perfetto se si vuole scoprire quest'autrice ucraina (ma francese d'adozione) accusata a suo tempo di essere un'ebrea che odia se stessa. Quest'odio avrebbe dovuto forse salvarle la vita, invece l'ha uccisa, perché il mondo, come quello da lei descritto, era costellato dalle ingiustizie e dall'ignoranza.